E’ bastato un giorno. Un giorno e siamo stati presentati alla comunità liberiana di Houston. Dopo aver passato due mesi a Los Angeles ed aver scoperto nigeriani, congolesi, etiopi, il viaggio alla ricerca della diaspora Africana è atterrato prima nella capitale del Texas, Austin e poi a Houston.
Un treno di trenta ore (trentatre se si contano le ore di ritardo) ci ha portati nella capitale Texana. Lungo il cammino abbiamo incontrato le persone più bizzarre: una signora Afro-Americana che intratteneva gli altri passeggeri con il suo umorismo e il suo tentativo di pronunciare “Massachusetts”; il ragazzo diciannovenne che ha lasciato l’Arizona dove ormai non aveva più una famiglia: il padre lo ha cacciato una delle sere in cui era sbronzo – almeno così ha raccontato a un bambino di nove anni (amico incontrato sul treno). Come sospettavo il diciannovenne non avrà nostalgia dell’Arizona: una distesa infinita di caldo e deserto.
Austin! Che città a misura d’uomo. Non per niente è sede di una delle università più grandi. E noi abbiamo potuto gustare un po’ della vita universitaria visto che abbiamo preso una stanza in affitto in un modernissimo e ultra accessoriato studentato, trovato tramite Airbnb (se non avete ancora provato questa piattaforma, fateci un pensierino, è decisamente più economico di molti alberghi/hotel). Al mattino nuotata in piscina, palestra per soli studenti, e poi via in città a programmare i prossimi spostamenti. Un must-do è una sera nella sesta strada dove giace il cuore della musica live della città. E se siete fortunati il proprietario della vostra stanza vi farà recapitare a casa dei biscottini caldi al punto che le gocce di cioccolato si squagliano in bocca, una delizia!
Ma torniamo a Houston, il focus della ricerca per il nostro documentario, (IN)VISIBLE CITIES. Siamo rimasti in città per sole due notti, tre giorni. Il primo praticamente inesistente, perché siamo arrivati la sera tardi. Il secondo giorno l’abbiamo speso a contattare la lista di persone che amici e conoscenti ci hanno consigliato per incontrare le comunità africane. Dopo un pomeriggio passato in un quartiere molto povero della città, dove una ONG aveva organizzato una giornata di sport per i bambini del posto, sono arrivate la prime conferme: “ho letto meglio la vostra email e ho deciso di aiutarvi”, scrive James della Liberia.
Il giorno dopo, un sabato, siamo sul campo. Incontriamo James in un parcheggio enorme di un supermercato e ci lasciamo guidare verso i complessi a ovest della città, dove la maggior parte dei liberiani vivono. Come sono arrivati lì? Quanto tempo fa? Come vivono? Queste sono domande alle quali risponderemo presto con foto, video e narrazione.
Quello che voglio condividere ora è la sensazione di entrare nelle case di donne di mezza età con quelle scavature sul viso che fanno capire che ne hanno di storie da raccontare. Voglio dirvi di come, avvisate del nostro intento di filmare e fare foto, siano andate a picchiettarsi il naso e a cambiarsi d’abito. Voglio dirvi di quanto ospitali e disponibili sono state, nonostante la difficoltà nel capirci (parlavano un inglese chiuso e difficile, forse con un accento di una delle lingue della Liberia – Africa occidentale).
Il gruppo di donne dallo spirito bambino, lo abbiamo rincontrato a messa la domenica seguente, poche ore prima di partire. Se il giorno prima avevano cambiato l’abito, quella domenica, in una chiesa presbiteriana e popolata da un fiume di bianchi, non passavano inosservate. Ci hanno abbracciati e salutati. Marie ci ha chiesto di scattare una foto insieme – che occhi dolci aveva, e che sorriso!
Un giorno. E’ bastato un giorno per convincere un gruppo di sconosciuti a farci entrare nelle loro case e vite. E’ bastato un giorno per fargli capire il valore di (IN)VISIBLE CITIES. Un giorno.